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QUALITÀ E PROFESSIONE 37
Antonio Panti, dal 1971 ha ricoperto diversi incarichi nella FIMMG,
di cui è stato anche Segretario e Presidente Nazionale. Presidente dell’Ordine di Firenze
dal 1988. Ha ricoperto cariche nazionali nella Federazione Naz.le degli Ordini, in particolare nella Commissione per le ultime stesure del Codice Deontologico. Membro di numerose Commissioni Ministeriali. Dal 1998
è Vicepresidente del Consiglio Sanitario Regionale.
La professione è un’attività (intellettuale) abituale per il cui esercizio occorre una laurea e un periodo di apprendistato, che è insegnata da chi la pratica e i cui ambiti sono autodefiniti. Professione è anche la pubblica dichiarazione di una fede o di un ideale. La professione medi- ca è una prassi scientifica e tecnica che opera in un mondo di valori; per questo, all’inizio della professione, i medici “dichiarano” la loro eti- ca pronunciando il giuramento. La produzio- ne è l’insieme delle operazioni, intellettuali o strumentali, semplici o complesse, attraverso le quali si produce un bene. Produttività infine è la capacità di produrre creando utilità, cioè quanto si realizza (come risultato della produ- zione) per ogni unità lavorativa in un tempo dato.
Teoricamente queste definizioni non sono in contrapposizione. Lo diventano nella pratica quotidiana della sanità se non si trova il cor- retto equilibrio tra le diverse esigenze, anzi si considera la professione una questione perso- nale dei medici e non il problema principale per ottenere l’efficacia e l’efficienza delle cure. Se, come avviene nella sanità pubblica (l’impresa), si valuta come valore principale la produttivi- tà, cioè il numero delle prestazioni effettuate, e queste prevalgono anche sul prodotto, cioè sui risultati in termini di salute, e si valuta questo su indicatori di processo e non di risultato, è chiaro che la professione ne esce mortificata se non sconfitta.
La Corte Costituzionale ha sentenziato che le decisioni sulle cure spettano solo al medi- co che le adotta seguendo le leges artis, dopo aver ottenuto il consenso del paziente. Però il lavoro del medico si svolge all’interno di orga- nizzazioni complesse e costose, la cui gestione fortemente condiziona l’autonomia professio- nale. È vero che alcuni medici non hanno an- cora compreso che la sostenibilità delle cure è un valore deontologico e scambiano autono- mia con anarchia. Ma per tutti gli altri resta il problema di conciliare le condizioni lavorative imposte dalla struttura, compresa l’inevitabile burocrazia, con il piacere della professione, del lavoro ben fatto con tutto il tempo necessario e con il miglior risultato per il paziente.
Ma cosa vogliono i medici per non sentirsi a disagio? Il tempo per curare i malati senza compilare scartoffie (essere giudicato come medico e non come burocrate); luoghi digni- tosi ove lavorare; un sistema informatico che faccia guadagnare tempo e non raddoppi il la- voro; una potenzialità di carriera legata al me- rito e non alle alzate d’ingegno dei governanti; uno stato giuridico uguale per tutti; lavorare in serenità e non secondo l’umore di amministra- tori, magistrati, giornalisti; sentirsi dire qualche volta “grazie per il lavoro svolto”; operare in un mondo in cui qualità della vita e qualità del la- voro vanno di pari passo; avvertire che la qua- lità delle relazioni tra operatori e con i cittadini è preoccupazione aziendale; innovare in modo condiviso tecnologie e strumenti; condividere e determinare le decisioni organizzative; avere una seria tutela legale e assicurativa; insomma sentire di non aver sbagliato quando si è scelto la facoltà.
Dopo la fatica del lunghissimo iter forma- tivo dà fastidio il continuo ricordo dell’antica missione del vecchio medico che conosceva più il prendersi cura che il curare. È vero che per secoli i medici hanno considerato la medicina come la semplice somma dei loro atti, confon- dendo atto del medico con atto medico mentre oggi la medicina è troppo complessa e costo- sa, troppo intrecciata ai problemi collettivi; la professione è cambiata e il medico è diventato un ingranaggio di un’impresa grandiosa, una parte sensibile del PIL. Inoltre i medici hanno troppo fidato nei progressi della scienza e si accorgono quanto questi siano insufficienti a garantire il successo professionale. Così preva- le ancora l’immagine del dottor Terzilli e sfuma nel rimpianto quella del condotto di fucinia- na memoria. E così la narrazione del paziente non coincide più con quella del medico. Dopo decenni di economicismo, di aziendalismo, di abbandono formativo dei giovani e di fantasie sul governo clinico, nel tramonto di una civil- tà solidaristica sprecata da governi dissennati, i medici debbono saper raccontare di sé, sono ancora uno dei pochi ancoraggi esistenti in questo mondo insicuro. TM
ANTONIO PANTI
Professione, produzione e produttività
Toscana Medica 3|2015

