Page 36 - Toscana Medica
P. 36

36 QUALITÀ E PROFESSIONE
cora accettabile, è apparentemente in piena attività e anche questo gli permette probabil- mente di considerare il problema con un cer- to distacco ed ironia. È ovvio inoltre che non tutti gli oncologi sono super-ambiziosi e che non si può demonizzare la ricerca scientifica. Rimane tuttavia da valutare con attenzione il messaggio, a mio parere positivo, racchiuso nelle tre parole finali della conclusione del blog, ” amore, morfina e whisky”.
“Morfina” può sottintendere la necessità non solo degli analgesici, ma anche di tutti gli altri presidi terapeutici che migliorano la qua- lità della vita e mettono il paziente colpito da tumore in condizioni di poter apprezzare ciò che ancora la vita offre (non solo “whisky” ov- viamente!). È tuttavia la prima parola che ha il significato maggiore, “L’amor che move il sole e l’altre stelle“, un sentimento talmente po- tente e dagli innumerevoli significati che con- viene esaminarlo dal punto di vista applicati- vo, quello degli “atti d’amore”. Non viene mai sottolineato abbastanza che l’amore richiede tempo e una testimonianza che sicuramente piacerebbe a Smith, è quella dei Suprèmes, un trio di colore, che negli anni ’60 mieteva- no successi negli Stati Uniti ed in Inghilterra con la canzone “You can’t hurry love”, ”Non si può metter fretta all’amore”. Per gli operatori sanitari e i familiari il tempo è quello neces- sario per valutare in modo esteso i problemi personali, familiari e sociali del paziente, ri- durne l’ansietà per le procedure diagnostiche e terapeutiche, valutare attentamente l’appli- cazione di nuovi metodi e tecnologie evitando l’accanimento terapeutico.
Insomma tutto quello che oggi è indicato da una medicina “slow”, un obiettivo tutt’al- tro che facile a realizzare nell’odierna socie- tà dominata da “La fretta che l’onestade ad ogni atto dismaga”, altra splendida definizio- ne dantesca. Negli “atti d’amore” sono com- presi anche l’attenzione e l’impegno costante necessari per riconoscere le varie fasi psico- logiche che attraversano coloro che sanno di dover morire. Descritte in modo magistrale molti anni fa in uno studio ormai classico del- la Elisabeth Kübler Ross (On death and dying. McMillan Editore-New York 1969) le avevo ri- portate in un articolo “Ancora sul problema della morte”, pubblicato nel 1978 sul Bolletti- no dell’Ordine dei Medici, e mi hanno aiutato nella professione e in occasione di eventi do- lorosi familiari. Non sempre sono identifica- bili, non sempre si succedono con regolarità, possono invertirsi o mancare ed è importante sottolineare che sono attraversate anche da operatori sanitari, familiari o amici che circon-
dano il paziente. Non riconoscerle può rende- re difficile o impossibile il dialogo.
La prima consiste nel rifiuto della diagnosi, la seconda in cui il paziente si ribella e co- mincia a chiedersi “perché a me”?. Segue un periodo di pace in cui vi è contrattazione: in cambio della malattia sono richiesti certi fa- vori o concessioni e può essere utile accettare lo sfogo e contrattare le richieste. L’ultima è caratterizzata dalla tristezza quando chi sa di dover morire si rende conto che sta per lascia- re tutto e tutti quelli che ha amato. È la più difficile ad affrontare, non servono modalità banali mentre è di grande aiuto la costante presenza fisica, anche silenziosa, accanto al paziente. Superando questa fase può arrivare l’accettazione della morte.
Possono impedirla due fattori: l’interven- to degli operatori sanitari spesso volto a pro- lungare la vita ad ogni costo e l’assenza di familiari o amici nelle fasi terminali sostituiti da personale tecnicamente efficiente, ma so- stanzialmente estraneo alla storia personale di chi muore. Il primo comprende l’accanimento terapeutico e il mancato rispetto delle volon- tà espresse in vita, il secondo è rappresentato dal dolore per la rottura dei rapporti interper- sonali, dolore che può essere superiore alla tristezza della propria morte. Thomas Mann in “Lettera sul matrimonio, 1959” cosi si rivol- ge alla moglie: ”...quando un giorno le ombre caleranno e sentirò l’angoscia di quanto fu er- rato, mancato o non fatto, mi conceda il cielo d’averla vicina, la mano nella mia mano, per consolarmi, come cento volte mi ha conforta- to e sorretto nelle crisi di lavoro o di vita e per dirmi: sta contento, sei stato bravo, hai fatto quel che potevi”.
Qualche anno prima della morte Buñuel, il regista citato nel blog di Smith, aveva dichia- rato al suo amico, il romanziere Carlo Fuen- tes,” Non ho paura della morte. Ho paura di morire solo in una camera d’albergo. Devo sa- pere di chi sono le dita che chiuderanno i miei occhi”. È un messaggio profondo, ineludibile, è la richiesta di trasmettere, in una staffetta ideale, il “testimone” della vita alle persone amate che rimangono. A loro Sant’Agostino si rivolge con queste parole: “Coloro che ci hanno lasciato non sono assenti, sono solo in- visibili; tengono i loro occhi pieni di gloria fissi nei nostri pieni di lacrime”.
TM
Toscana Medica 2|2016
Info: elisa.dolara@tin.it


































































































   34   35   36   37   38