Toscana Medica -Agosto-Settembre-2019

8/2019 T OSCANA M EDICA 24 testatina quali à e professione delle cure. In medicina il “provarle tutte” è quanto di più pericoloso pos- sa esistere perché comporta un enor- me dispendio di soldi (per le famiglie e, ahimè, per lo Stato), di risorse psi- chiche e fisiche, senso di smarrimen- to che segue la falsa illusione, spesso gravi effetti avversi nei pazienti, da non sottovalutare. A complicare queste reazioni, nel terzo millennio si aggiunge la diffu- sione del sapere medico, certamente in maniera superficiale, attraverso la rete, per cui seguiamo il consiglio del tizio esperto di turno incontrato al bar sport di turno. La trappola più pericolosa è quella legata all’avvalersi, nella scelta del- la cura, al dato che altri genitori di bambini con autismo hanno detto di aver visto miglioramenti . Noi medici che ci occupiamo di età evolutiva sappiamo bene, dalla prati- ca clinica, quante bias contengano le impressioni dei genitori, soprattutto nelle prime fasi di una nuova cura e soprattutto se tali impressioni siano o meno state raccolte attraverso valu- tative di documentata attendibilità (e quindi all’interno di un trial control- lato). Esiste una reazione biologica del genitore, il cui cervello sente di fare qualcosa di nuovo (e quindi uti- le) per la malattia del figlio. Inoltre il metodo di presentazione dei risultati delle ricerche influisce sulla scelta del trattamento in modo inversamente proporzionale al grado di certezza di efficacia. Molti studi documentano che non solo pazienti, ma anche medici e amministratori, sono portati all’entu- siasmo per interventi terapeutici pre- sentati con misure di efficacia relati- va, perché queste ovviamente hanno la capacità di enfatizzarne l’efficacia. Accettare la malattia non significa arrendersi, tutt’altro! Significa affi- darsi ai migliori centri e professio- nisti dedicati allo studio di quella patologia; dietro l’autismo a oggi ci sono migliaia di ricerche mediche serie in corso (intorno a 40.000, su sintomi, farmacoterapia, cause, neuroimmagini, trattamenti riabi- litativi). Certo non sono i genitori a dover ricercare, ma gli scienzia- minci a considerare i sintomi un pro- dotto di sottostanti deficit settoriali delle funzioni cerebrali non ancora individuati e non ancora sufficiente- mente messi in evidenza. La varietà sintomatologica in termi- ni quantitativi porta talvolta a mi- sconoscere la diagnosi fino all’età in cui, per l’incremento delle richieste soprattutto relazionali e interpreta- tive della realtà, emergono quadri di disadattamento, spesso secondari: da disturbi dello spettro ossessivo, ansioso, neuropsicologico settoriale, fino a franchi scompensi depressivi, psicotici. All’interno della SOSA di Psichiatria dell’AOU Meyer è frequente ritro- vare, nella storia di adolescenti che arrivano in urgenza per sintomatolo- gia psichiatrica acuta, segni pregres- si, ma misconosciuti afferenti allo spettro. “Gli insegnanti hanno sempre segna- lato ottimo rendimento, ma scarsa socialità”, “è sempre stato impaccia- to nei movimenti e nel suo mondo”, “ha pochi amici ed è stato vittima di bullismo”, “è bravissimo al computer , fatica di più nei temi”, “non si è mai adattato ai cambiamenti”: sono frasi che di per sé non costituiscono ele- menti di diagnosi o stigmatizzazione, ma che devono accendere nel clinico un campanello di allarme per appro- fondire la qualità della comunicazio- ne, della relazione, degli interessi, della eventuale presenza di ritiro e ripetitività. Il fine è quello primario di rendere il paziente il più possibile consape- vole di se stesso, per poter impara- re a dare una lettura più integrata di quanto succede nelle sue emozioni, ma anche nelle relazioni con gli altri. La consapevolezza di sé, là dove an- cora possibile, è la base di partenza per una cura efficace. Come più volte affrontato anche in questa rivista, l’assenza di una tera- pia causale, lo stravolgimento dello sviluppo neuropsichico in tenera età, l’impatto affettivo della diagnosi sui genitori e sui clinici innescano un meccanismo di non accettazione che fa arrivare a provarle tutte , indipen- dentemente dalla provata efficacia ridurre l’attenzione sullo sviluppo dei bambini e delle famiglie; occuparsi dei punteggi dei sintomi non signi- fica portare sconforto nelle famiglie. Chi pensa di utilizzare in questo modo categorie diagnostiche e test sbaglia di grosso. Significa invece uti- lizzare strumenti nati dalla ricerca, per fornire strumenti di conoscenza prima e di cura poi, sia al bambino che alla famiglia. La forte espressività genetica dei di- sturbi dello spettro autistico conduce spesso a individuare simili sintomi, sottosoglia, in altri membri della fa- miglia, permettendo un riconosci- mento e una condivisione di stili evo- lutivi e di crescita, che servono a migliorare l’adattamento e l’empatia tra i membri della famiglia e tra le fa- miglie e i curanti. Questo non significa curare il cosid- detto autismo sottosoglia , ma piut- tosto permettere una lettura più complessa e umana del disagio psico- patologico. Purtroppo i disturbi dello spettro autistico hanno a oggi una prognosi negativa rispetto alla guarigione, ma proprio grazie a interventi mirati, nati dalla conoscenza accurata dei bambini e delle famiglie, è possibi- le ridurre sintomi comportamentali secondari, livello di disabilità intel- lettiva e di dipendenza dall’adulto, psicopatologia secondaria. Lynn Waterhouse, direttrice del Centro sul Comportamento del bambino in New Jersey, ha dato e sta dando un grande contributo allo studio della neurobiologica dell’Au- tismo e all’uso di farmaci specifici per i bersagli sintomatologici (ritiro relazionale); il suo libro Rethinking Autism: variation and complexity , uscito nel 2012 (Academic Press), lungi dal mettere in crisi la somma dei sintomi che conducono alla dia- gnosi di Autismo, porta in evidenza la molteplicità sintomatologica ed eziopatogenetica di questo quadro clinico, anche all’interno della stessa famiglia, auspicando che la ricerca, a oggi secondo l’autrice poco fruttuo- sa, cambi punto di vista e, proprio in base all’evidenza che l’autismo non esiste come disturbo omogeneo, co-

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