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EDITORIALE 5
ANTONIO PANTI
La centralità del paziente, retorica e realtà
I medici sanno bene che il cosiddetto pa- ternalismo è ormai defunto anche se si può presentare mascherato in mille modi all’interno delle complesse logiche del moloch sanitario. Per questo si pone spesso l’accento sulla “cen- tralità del paziente” quale conquista sociale e ri- vendicazione umana, e questa legittima pretesa è diventata quasi un mantra del politicamente corretto. È una posizione legittima, collegata al cosiddetto empowerment del cittadino, cioè a un suo più concreto inserimento nel processo decisionale sia personale, in caso di malattia, che collettivo nel contrasto ai rischi primari. In America il principio base della tutela della sa- lute è la capacità individuale di mantenerla, il che pone sullo sfondo il concetto europeo di solidarietà e di ecologia intergenerazionale.
Tutto ciò, tuttavia, rischia di diventare un mito cui non segue una realtà sempre positiva. Il “paziente” - colui che patisce - si trasforma in “esigente” sostenitore della propria autodeter- minazione e della capacità di imporre al medi- co, quasi fosse un mero esecutore, le sue scelte. Allora qualche riflessione è opportuna. Essere malato non è un atto solitario, a meno che qualcuno non voglia risolvere da solo i propri problemi rinunciando a ogni forma di assisten- za. La malattia implica l’impegno della famiglia e, a seguito del suo riconoscimento sociale (e basta il certificato del medico), smuove una somma di aiuti pubblici spesso rilevantissimi sul piano dei costi e dell’organizzazione. Il medico non è solo il mediatore sociale che, unico, ha il diritto di definire “malata” una persona, ma è anche colui che, con la sua competenza profes- sionale, stimola la resilienza del paziente, il suo coping, insomma stabilisce una relazione che ha effetti positivi sullo stesso decorso del male. Il medico è una figura di riferimento che opera secondo millenari principi etici.
Però oggi si afferma un’ambigua tenden- za sociale. Da un lato le attese miracolistiche in una medicina salvifica illuminano la scienza medica, o meglio la sua vulgata, per poi crea- re disillusione e quasi rabbia per i limiti della cura; dall’altro i medici, in quanto detentori di
questo potere tecnologico, sono spesso indicati come capri espiatori di tutti i mali della sani- tà. E di nuovo torna il mantra della centralità del cittadino che deve decidere (e va bene!), deve essere rispettato nella sua dignità (e co- me opporsi?), deve insomma essere al centro dell’assistenza. È ovvio, anche perché l’affer- mazione dei diritti di cittadinanza è ben lungi dall’essere completata. Ma nel caso specifico della tutela della salute vorremmo sommessa- mente ricordare che questa è possibile se il cit- tadino paziente trova di fronte a sé, per aiutarlo a superare i suoi guai e la sua sofferenza, un medico sereno che dispone del tempo neces- sario ad ascoltarlo e a comprenderne il vissuto. Certamente un medico umano e capace, ma la centralità, se questa parola vuol dare il senso dell’importanza del valore etico e politico di ciò di cui si parla, non è né del paziente né del me- dico, è la relazione che deve essere posta alla base e al centro di qualsiasi prassi assistenziale.
Infine il concetto di produttività non può essere ignorato in sanità ma occorre ricordare che questo non è solo tecno-dipendente, come in qualsiasi altro processo produttivo in cui le tecnologie consentono un enorme incremen- to della produzione. In medicina il “prodotto salute” è prevalentemente tempo-dipendente. Parlare, ascoltare, comprendere, richiede tem- po. La questione tempo dovrebbe essere la ba- se dei prossimi contratti di lavoro, altrimenti i medici non potranno soddisfare le richieste dei pazienti. La cosiddetta umanizzazione delle cu- re consiste nel riconoscere diritti e doveri di tutti gli attori in causa. Allora, per evitare gli affolla- menti in centro, è bene che la politica e l’am- ministrazione sappiano creare le condizioni per cui il rapporto tra medico e paziente si possa svolgere secondo i canoni antichi del recipro- co rispetto. Il soggetto debole della relazione è senza dubbio il paziente, però evitiamo che anche il medico si senta a disagio nel profes- sare la sua opera perché in tal modo nessuno ne trarrebbe vantaggio anzi sempre più assiste- remmo a una traslocazione meccanicistica della medicina. TM
S O M M A R I O ToscanaMedica4|2016

