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LETTERE AL DIRETTORE 51
Francesco Urbano, specialista in Dermatologia e Venereologia e in Igiene e Medicina Preventiva, dottore di ricerca, medico militare dal 1994. Per dieci anni Dirigente
il servizio sanitario di reparti di truppa, dal 2006 presta servizio come Ufficiale in servizio di Stato Maggiore presso il Comando di Sanità dell’Esercito. Tenente Colonnello dal 2008, è da allora responsabile della Medicina Preventiva.
Sempre più spesso le parole letalità e mortalità vengono considerate sinonimi; è un peccato, per- ché i termini si riferiscono a concetti radicalmente diversi. Che vengano confusi dai mezzi di comuni- cazione di massa è deplorevole, ma purtroppo è solo un aspetto, e non il più serio, dell’imbastardi- mento della nostra lingua. L’impegno per frenarlo deve coinvolgere la scuola di ogni ordine e grado, e deve essere stimolato e guidato dai linguisti.
Mi sono deciso a scrivere questa lettera a To- scana Medica per averne apprezzato nel numero scorso l’uso corretto del termine, e nella speranza che qualche lettore se ne giovi.
I professionisti dovrebbero padroneggiare e custodire le lingue specializzate proprie di ogni specialità, necessarie per comunicare fra loro effi- cacemente e senza ambiguità; nei campi in rapida evoluzione dovrebbero governare l’evoluzione del linguaggio per mantenerlo adeguato ad esprimere idee e concetti nuovi; i vecchi termini specialistici, collaudati e dimostratisi utili attraverso le genera- zioni, dovrebbero essere considerati un patrimonio prezioso, da mantener vivo con l’uso appropriato.
In questa nota richiamo brevemente il signifi- cato specialistico dei termini “letalità” e “mortali- tà” e dei loro derivati, così come ci era stato inse- gnato nei corsi universitari di base, poi passo a una disamina dello scempio cui sono sottoposti, a voce o per scritto, in convegni e in pubblicazioni scien- tifiche, anche da parte di personaggi autorevoli. Infine, analizzo quali possano esserne le cause, e suggerisco dei possibili, forse utopistici, rimedi.
La mortalità
In demografia, medicina, scienze sociali, eco- nomia e finanza, ..., la mortalità è definita come il rapporto tra il numero di morti in un anno di osservazione e la popolazione da cui tali morti derivano (1). A questa definizione (come a quella della letalità della quale vedi oltre) sono improntati i testi, i trattati e gli insegnamenti di base e succes- sivi di statistica medica, di epidemiologia, di igie- ne e sanità pubblica nelle nostre scuole mediche. Già questo basta a capire che di mortalità per una epidemia in corso non se ne dovrebbe proprio par- lare. Approfondendo il concetto, si capisce che la mortalità per una causa specifica di malattia risulta congiuntamente dalla sua incidenza nella popo- lazione (tasso di morbosità) e dalla gravità della malattia (tasso di letalità).
La letalità
Il tasso di letalità, spesso indicato semplice- mente come letalità, è una misura di incidenza
utilizzata in epidemiologia, che indica il numero totale di decessi per una determinata malattia in rapporto al numero totale di soggetti affet- ti da tale malattia. Dal momento che tale valore è estremamente variabile in relazione alla durata dell’osservazione, questo va contestualizzato in rapporto a un intervallo di tempo. È indice di gra- vità di una malattia e si usa in particolar modo per le malattie infettive acute, mentre il suo utilizzo nelle condizioni croniche è limitato dall’ampia finestra temporale (2). Ovvio, a questo punto, che per indicare quanto sia seria la minaccia di malat- tie emergenti quali l’EVD (Ebola Virus Disease), la SARS (Severe Acute Respiratory Distress), la MERS (Middle East Respiratory Syndrome), ..., sia la le- talità da prendere in considerazione, non la mor- talità.
Il panorama attuale
Il diffuso MMWR che ho sott’occhio (3) riporta che in una casistica di EVD raccolta da una mul- tinazionale della gomma operante in Liberia, con standard operativi assai superiori a quelli locali, si sono avuti 39 morti tra i 57 casi accertati, in un pe- riodo di 54 giorni, su una popolazione di 80.000 assistiti; dati molto interessanti; ma la mortalità, nel periodo considerato, non è del 68% (39/57 è la letalità), come riportato, ma 39/80.000, cioè 0,05%.
Una disamina più estesa, ma meno approfon- dita, mi porta a concludere che nella letteratura scientifica in lingua inglese il termine mortality è molto spesso usato in modo generico, per riferir- si agli eventi mortali (death); una interrogazione in PubMed per il primo termine evoca 872.084 citazioni; per il secondo, 605.140. Case Fatality Ratio (CFR, il nostro tasso di letalità) compare in PubMed 873.783 volte. Ripetendo la richiesta a PubMed aggiungendo AND Ebola trovo 283 lavo- ri che usano Case Fatality Ratio, presumibilmente in modo appropriato, e 256 che usano Mortality Rate (MR), in modo non appropriato. E non è una questione di lingua: i loro testi di statistica medica, di igiene, di epidemiologia, definiscono i termini con lo stesso nostro rigore; alcune riviste impon- gono ai loro autori un uso appropriato dei termi- ni, altre, la maggioranza, no. Per esemplificare: il prestigioso Journal of Infectious Diseases cita CFR 22.029 volte, MR solo 6896 volte; Emerging Infec- tious Deseases, organo ufficiale dei CDC, presen- ta un rapporto invertito: 5000 articoli citano MR, 1200 citano CFR; il curioso è che occasionalmente CFR viene usato correttamente, magari più volte, nel testo, poi il titolo riporta Mortality Rate (4).
FRANCESCO URBANO
Letalità e mortalità non sono sinonimi
Toscana Medica 1|2015


































































































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