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QUALITÀ E PROFESSIONE 15
debolezze psicofisiche interne (un podista alle- nato ha le risorse cardio-respiratorie idonee per affrontare lo stress della corsa e adotta sponta- neamente meccanismi neuro-psichici più poten- ti nel tollerare il dolore). Non è quindi uno sport quella pratica in cui l’impegno corporeo non è rilevante, in cui la salute è programmaticamente usurata o messa a repentaglio, in cui l’obiettivo della performance è inseguito accanitamente, in cui la fatica del training è sostituita da tratta- menti protesici o farmacologici artificiali.
Dopo un’ora e 12 minuti della pellicola Il maratoneta, il dr. Szell (Laurence Olivier), ex nazista e trafficante di diamante, ci mostra che cosa sia un uso non medico di conoscenze me- diche (non medical use of medical knowledge8): la sua perizia odontoiatrica è impiegata per tor- turare il povero Babe. “Is it safe?” (“è sicuro?”) è la tremenda, ossessiva domanda del carnefi- ce, mentre scava e perfora una carie della vit- tima. Che cos’è, oggi, “medicina”? Secondo la tradizione ippocratica, essa ha il suo nucleo di senso nella clinica: aver cura di un sofferente, prevenendo o guarendo le sue malattie, riabi- litando o lenendo il dolore. Secondo invece le ipotesi di “riplasmazione corporea”, la medicina è una tecnica impegnata a ridisegnare i confi- ni, i contenuti e le funzioni corporee, secondo il desiderio di un “utente” (non necessariamente malato), che sia libero, informato, competente.
E la medicina dello sport? Anche qui la stra- da si biforca. In un’ottica più “clinica” (quella che difendiamo), il medico sportivo previene, cura o riabilita le patologie dell’atleta; non col- lude con pratiche patogene (gare pericolose; uso di sostanze potenzianti); supervisiona gli aspetti sanitari di nutrizione, igiene, allenamen- to; subordina all’interesse dell’atleta (a breve e lungo termine) gli obiettivi di incremento pre- stazionale; non prescrive farmaci o interventi allo scopo di garantire la partecipazione alla gara, se prevede che al termine di quest’ultima la condizione clinica sarà peggiore. La medicina dello sport è quindi pienamente medicina, dato che lo sport (Canguilhem docet) lavora per in- crementare la salute.
In una prospettiva di enhancement (poten- ziamento) la medicina dello sport non è una
branca della medicina tradizionalmente clinica, ma sarebbe più simile alla “cosmesi” chirurgica non-terapeutica, in quanto il suo obiettivo non sarebbe il conforto della sofferenza (suffering relief), ma il miglioramento della forma (impro- vement of fitness), l’estensione delle capacità di svolgere attività fisiche senza fatica (without exhaustion), l’incremento delle prestazioni (per- formance), l’allestimento delle condizioni psico- somatiche utili a perseguire gli obiettivi sportivi che un soggetto ritenga prioritari, la realizzazio- ne del potenziale agonistico di un atleta (to fulfil one’s own potential)9. Questo modo d’intende- re la specialità medico-sportiva s’inserisce per- fettamente, come si vede, nella filosofia medica dell’enhancement o potenziamento: spingere un corpo sano al di là dei suoi limiti fisiologici, per soddisfare desideri etici, estetici, ideologici, economici, ecc. Somministrazione di sostanze, impianto di protesi, ibridazioni genetiche sono alcuni degli strumenti coerentemente impiega- bili da chi voglia ampliare certe funzioni presta- zionali (il dibattito sul transhumanism aiuterà il lettore che voglia documentarsi in proposito10).
L’imbarazzo dei codici d’etica di fronte a questi dilemmi è prevedibile ed è rappresentato da un testo recente11, che dedica un nuovo ca- pitolo alla medicina potenziativa ed estetica12. Vi si dichiara che:
“Il medico, quando gli siano richiesti inter- venti medici finalizzati al potenziamento delle fisiologiche [N.d.A.: da sottolineare: “fisiolo- giche”] capacità psico-fisiche dell’individuo, opera, sia in fase di ricerca che nella pratica professionale, secondo i principi di precauzio- ne, proporzionalità e rispetto dell’autodeter- minazione della persona, acquisendo il con- senso informato in forma scritta”13.
Il possesso di idonee competenze, la pro- messa di non suscitare né alimentare aspetta- tive illusorie, la prudenza d’individuare possibili soluzioni alternative di pari efficacia, il diligente impegno di garantire la massima sicurezza delle prestazioni erogate, costituiscono le condizio- ni di un comportamento corretto14. Eppure, pochi passaggi prima15, il divieto di esorbitare
7 Georges Canguilhem, Il normale e il patologico, Torino, Einaudi, 1998.
8 Il termine viene da un importante rapporto internazionale: Hastings Center, Gli scopi della medicina: nuove priorità,
in Notizie di Politeia, n. 45, a. 13, 1997 (ed. it. a cura di M. Mori). Per il rapporto, scopi propriamente medici sono: preven- zione delle malattie e dei danni fisici; promozione e conservazione della salute; alleviamento del dolore e delle sofferenze causate dalle patologie; terapia e assistenza dei malati (anche di quelli inguaribili); rimozione dei rischi di morte prematura e propiziazione di una morte serena.
9 Per queste tesi, cfr.: “Why sports medicine is not medicine”, il titolo lapidario del cap. 2, del volume curato da M. McNamee, Sport, Medicine, Ethics, Oxon - New York, Routledge, Taylor & Francis, 2014.
10 Cfr. R. Marchesini, Post-human. Verso nuovi modelli di esistenza, Torino, Bollati Boringhieri, 2002 e Il tramonto dell’uomo. La prospettiva post-umanista, Bari, Dedalo, 2009.
11 FNOMCeO, Roma, Codice italiano di Deontologia Medica, 18 maggio 2014.
12 Il Titolo XVI.
13 Art. 76.
14 Stiamo parafrasando il capoverso dedicato alle finalità estetiche.
15 Artt. 71-73 “Medicina dello sport”.
Toscana Medica 2|2015

