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14 QUALITÀ E PROFESSIONE
A. BANI, M. MINIATI1
Disagio psichico e fanatismo
Noi psichiatri veniamo spesso interrogati da gente comune e da colleghi circa il fenomeno dei terroristi suicidi. La domanda è più o meno la solita: “sono matti o no”? Questione attuale e di grande impatto nell’opinione pubblica riguarda la possibilità che i terroristi, ed in particolare quelli che si suicidano, siano malati psichici. Infatti sembra impossibile che persone “nel pieno possesso delle loro facoltà mentali” decidano di morire per sacrificare a loro volta altre persone, spinti da un credo religioso o ideologico. Si prospettano modalità di approccio al problema e possibili strategie di fuoriuscita da suggerire ai familiari di chi cade nella rete dell’indottrinamento.
Parole chiave: fanatismo, terrorismo, suicidio,
Sono molte le opinioni riportate, nei giornali e nei social a riguardo dei terroristi suicidi. Spesso gli interventi degli esperti a questo proposito vengo- no riportati non sempre con esattezza (se si estra- pola una frase, a esempio, il concetto voluto può esserne stravolto). D’altronde l’eterogeneità delle risposte è segno della complessità del fenomeno e per avere una visione quanto più completa do- vremmo sempre integrare le varie fonti di infor- mazione. C’è da chiedersi poi chi debbano essere considerati “gli esperti” di questo fenomeno: i so- ciologi? I politici? Gli psicologi? Gli psichiatri? Nel quesito di fondo, e cioè se i terroristi suicidi siano malati psichici, ci sono due aspetti da evidenziare separatamente: terroristi e suicidi, e solo seconda- riamente i due aspetti insieme, prospettando così un fanatismo di fondo. Noi psichiatri, in quanto medici, dovremmo sempre partire dall’analisi e dalla conoscenza del singolo soggetto e solo do- po “tentare” una valutazione più ampia basata su studi importanti, per non scadere in una semplice opinione. Ancora oggi si parla di suicidio anomi- co, altruistico, passionale, patologico, allargato, razionale, mistico, oblativo, ed altri ancora, per evidenziare molteplicità di tipologie ma non spie- gano niente se non quella che è ipotizzata la cau- sa o il motivo (che ovviamente nessun suicida ci può più comunicare). Questo per dire che se non si conosce la persona prima che compia il gesto è quasi impossibile farne dopo una valutazione. Comunque non si può escludere a posteriori il dubbio riguardo alla presenza o meno di un di- sturbo psichico.
Dobbiamo chiederci soprattutto, e non per i capi, che non si suicidano, ma per gli adepti, che eseguono, se siano stati condizionati, sug-
comunicazione, psicopatologia
gestionati, ricattati, imbrogliati o altro.
La questione è molto complessa. Da una parte non si può fare di tutta l’erba un fascio e affermare che tutti i terroristi siano consape- voli delle loro azioni, perché non sono malati di mente ed in termini giuridici non presentano “infermità psichica”, come affermano studiosi quali Simon Wessely (2016). D’altra parte non si può neanche affermare che i terroristi siano tutti vittime di plagio, in quanto soggetti psichi- camente fragili e vulnerabili, portatori di “defi- cienza psichica”1 e quindi non del tutto capaci
di intendere e di volere.
Le tecniche di “radicalizzazione” messe in
atto dai reclutatori della jihad “ad esempio” seguono spesso il modello, si può dire stan- dardizzato, del reclutamento settario, con una manipolazione psichica raffinata, che porta al controllo della mente dell’adepto. È bene tener presente che il processo di indottrinamento si svolge di solito in quattro tappe: la prima consi- ste nell’isolare l’individuo dal suo ambiente so- ciale, con il risultato di ottenere che il soggetto non frequenti più amici e familiari, ritenendoli “venduti al sistema”. La seconda tappa è l’indi- viduazione dell’Islam come unica possibilità di rigenerazione e di elevazione spirituale. La terza tappa prevede l’accettazione totale dell’ideolo- gia radicale, e della convinzione di essere eletti, ammessi in un gruppo che detiene la verità. Co- me ultima tappa avviene la “disumanizzazione” di sé e degli altri, con l’accettazione del sacrificio di se stessi e degli altri come un vero e proprio dovere. Queste fasi devono quindi essere ben presenti a chi opera la deradicalizzazione.
Saremmo quindi dell’idea che in gran parte
Alessandro Bani, Laureato in Medicina
e Chirurgia e specializzato in Psichiatria presso l’Università di Pisa.
Vive a Livorno. Attualmente lavora come Dirigente Medico presso l’Ospedale della Versilia. Particolarmente interessato nello studio delle condotte auto ed eterolesive. Ha scritto alcune monografie
e libri scientifici e di divulgazione scientifica formativa.
Ha pubblicato oltre 100 lavori scientifici.
1 In giurisprudenza si definisce “deficienza psichica” qualsiasi alterazione mentale, anche transitoria, ed anche non morbo- sa, quindi non “psichiatrica”, che alteri la capacità di intendere e di volere del soggetto passivo, la sua capacità di critica, rendendone facile la suggestionabilità, e compromettendone la piena autonomia.
1) Psichiatra, libero professionista, Livorno
ToscanaMedica11|2016 S O M M A R I O

